IL SINDACO
Ascoltava immobile, seduto con la
schiena resa curva dai tanti anni di faticosa politica attiva - come si vantava
spesso - per amministrare quelle che riteneva le sue meravigliose isole
vulcaniche al centro del mediterraneo.
Aveva i gomiti appoggiati al
tavolino del bar “I Faraglioni”, pieno di turisti appena scesi dall'aliscafo,
luccicanti di sudore e assetati che si godevano la granita di mandorle alla
messinese con una morbida brioche appena sfornata dal microonde.
Il suo sguardo fissava attento una
piccola schiera di eleganti barche a vela e di piroscafi di lusso che
ondeggiavano ritmicamente ormeggiate al molo Levante, a pochi passi dal bar che
da circa un anno aveva lasciato gestire al figlio maggiore e prediletto che lo
aveva reso orgoglioso sposando una bellissima e giovane bionda torinese di
ottima famiglia, che gli aveva da poco regalato una bellissima nipotina che si
distingueva per il colore della pelle olivastra e per gli inconfondibili tratti
somatici siculi della famiglia che da cinque generazioni abitava quelle isole.
Il consigliere comunale si
affannava a dare spiegazioni e a chiedergli insistentemente come mai da
settimane non gli dava più confidenza, se avesse fatto qualcosa di cui non si
era reso conto, se l'aveva offeso, o se gli aveva mancato di rispetto.
Parlava velocemente e quasi
affannosamente guardandolo dritto negli occhi.
Il sindaco non si lasciava
distrarre e continuava a fissare le barche ormeggiate al porto.
Il consigliere allora aumentò il
ritmo e il volume della voce per attirare la sua attenzione.
Parlava in stretto e
incomprensibile dialetto messinese che solo chi è nato e cresciuto in quella
provincia avrebbe potuto comprendere.
Un orecchio distratto avrebbe
invece potuto facilmente scambiare quella lingua per arabo o per una
sconosciuta lingua nordafricana.
Gli aveva concesso già cinque
minuti del suo tempo, guardò il Rolex d'acciaio per accertarsi dell'ora, e in
quello stesso istante vide arrivare la giovane e bellissima nuora che gli s'avvicinava
sorridente e con in braccio la nipotina che con gli occhi sgranati mostrava un
sorriso ampio e gioioso che lasciava intravedere le piccole e rosee gengive
ancora spoglie di dentini.
Fu a quel punto che la sua
espressione mutò subitaneamente.
Si alzò di scatto, prese la
paffutella manina della bimba, la baciò sulla fronte, le sorrise con tenerezza
e con gli occhi lucidi di gioia.
Poi aggrottò le ciglia, si girò
verso il consigliere comunale che intanto si era alzato accanto a lui, lo puntò
negli occhi per un solo istante, e spedito si avviò verso l'uscita del bar.
Il consigliere comunale, senza
esitare, lo seguì a ruota, spedito, tallonandolo da dietro senza mollarlo di un
centimetro.
Lo immaginai come un piccolo
Yorkshire che affannosamente e con la lingua penzolante dalla bocca spalancata,
sta cercando di tenere il passo della sua vanitosa, altezzosa e ricca
padroncina che a passi svelti e spediti si riflette nelle vetrine di via
Condotti guardando più che gli eleganti abiti firmati, quella che lei ritiene
la sua meravigliosa immagine riflessa.
Lo Yorkshire, instancabile,
tenacemente, continua a saltellare tallonandola da dietro, prima a dritta e poi
a manca, nel non facile compito di leccarle velocemente la penzolante mano
destra prima, e la mano sinistra poi che sorregge una piccola ma elegante e
raffinata borsa firmata.
Ma com'è che ho potuto immaginare
un minuscolo Yorkshire come il corpulento e rozzo nei modi e nelle fattezze
consigliere comunale? ... e l'altezzosa e raffinata donna di buona borghesia
torinese con il piccolo e baffuto omino - che Dostoevskij avrebbe descritto
come un insignificante scrivano degli uffici delle tasse dello Zar - potente
sindaco dell'arcipelago più noto del mediterraneo che da due lustri oramai si
impegnava instancabilmente e generosamente a ricoprire la prestigiosa e
rispettata carica istituzionale di primo cittadino?
LA BIGLIETTAIA
Dalla finestra entrava una luce
forte e accecante che colpiva lo specchio dove la sua immagine veniva riflessa.
Il collo sottile e slanciato le
donava un'eleganza innata, naturale ... le braccia lunghe e sode erano ritte
lungo i fianchi curvi e sinuosi che traboccavano di femminilità ... i seni
erano alti e sodi, piccoli ma proporzionati, che immaginava presi da dietro con
tanta forza da procurarle un intenso dolore mischiato ad un sublime piacere.
Il pube era ricoperto da un fitto
ciuffo di peli neri e morbidi ben rasati che immaginava facili da spartire con
dita lunghe e sottili per consentire alla lingua di insinuarsi tra le grandi
labbra e scovare il clitoride che lentamente ma progressivamente si sarebbe
indurito mentre veniva leccato e succhiato sempre più freneticamente.
Le gambe erano lunghe e rese
muscolose dagli esercizi che ogni mattina si costringeva con determinazione a
fare in una piccola palestra ricavata accanto alla camera da letto.
Di traverso, con lo sguardo obliquo
puntato dritto nello specchio, si guardò il sedere tondo, sodo, brasiliano,
alto e pronunciato che aveva fatto girare la testa a decine di uomini che se
n'erano innamorati.
Era quella la parte del suo corpo
che la rendeva orgogliosa di sé più di ogni altra ... era il suo culo che la
faceva sentire una femmina irresistibile ... erano quelle rotondità che amava e
che la facevano sentire seduttiva ... erano quei due muscoli possenti e
rotondi, costruiti con fatica in centinaia di ore di intensa palestra che aveva
reso così provocanti e voluttuosi, che le piaceva immaginare di sentirseli
prendere voracemente con passione infuocata da due mani grandi e forti di
pescatore di tonnara.
Fu a quel punto che si fermò un
momento.
Guardò i suoi occhi allo specchio,
poi si infilò il vestitino nero molto aderente comprato la sera prima in una
boutique del corso che delimitava la spiaggia nera.
Le gambe e i polpacci, che non
amava, erano scoperti.
Come tutte le mattine si recò in
quell’ufficio bianco e arredato parsimoniosamente con vecchi e antiquati mobili
di rovere, a staccare biglietti per i turisti che sempre più agitati e di
fretta di lì a poco si sarebbero imbarcati chi per tornare sulla terra ferma
chi per continuare le vacanze nelle altre isole di quell'arcipelago puzzolente
di zolfo e nero di una lava secolare che ai suoi verdi e profondi occhi ancora
oggi appariva lurido e sporco.
IL SENATORE
Portò l'indice destro verso la
lingua per inumidirlo e sfogliare facilmente il Giornale di Sicilia nel quale
stava leggendo della morte di un ex senatore della Repubblica ucciso dal suo
giovanissimo badante immigrato regolarmente, dopo che l'aveva prima lavato e
poi accompagnato nella camera da letto.
Aveva immaginato il rosso sangue
colorare a chiazze profonde e ampie le lenzuola bianche del grande letto
matrimoniale dell’ex senatore, e le pareti schizzate dappertutto come in un
dipinto astratto di Goa, un pittore sardo del quale aveva visto le opere
navigando su internet.
La stanza si era riempita di
carabinieri e di giornalisti sui cui visi si leggeva il disgusto della scena
del delitto.
I primi erano intenti a delimitare
con un nastro bianco e rosso la scena del delitto ... i secondi, chi sul
palmare, chi su taccuini di carta riciclata, prendevano velocemente appunti
facendo domande a raffica al capitano appena arrivato e ancora disorientato dallo
spettacolo che gli si era presentato agli occhi.
Il Prefetto, appena uscito dalla
stanza, aveva ricevuto la telefonata della massima autorità dello Stato, amico
di lunga data dell'ex senatore, che gli chiedeva notizie.
Impalato come sull'attenti
nell'ingresso della villa e sudaticcio per il caldo afoso di agosto e per la
tensione della telefonata ricevuta, aveva raccontato i fatti e rassicurato il
Presidente sulla discrezionalità delle indagini.
Poi chiuse il cellulare e prese dal
taschino il suo fazzoletto bianco ricamato che poggiò sulla fronte per
assorbire le vistose gocce di sudore dalla pelle rossiccia e paonazza per il
caldo e l'emozione della telefonata.
Il questore per tutta la telefonata
rimase immobile accanto a lui e lo fissava dritto negli occhi per la curiosità
di quello che di lì a poco gli avrebbe detto.
Il Prefetto lo guardò, gli fece
solo un cenno con gli occhi, che nel loro linguaggio non verbale voleva dire:
appuntamento in Prefettura per il pomeriggio.
Le dita della mano destra del
Prefetto si erano sollevate lentamente e l'Audi A3 si avvicinò.
Salì gustandosi la frescura
dell'aria condizionata sparata a diciotto gradi dal suo autista, e
frettolosamente sparì dietro l'angolo che delimitava la tenuta della Fondazione
di cui era Presidente l'ottantenne ex senatore della Repubblica.
Aveva immaginato tutto questo.
Poi aveva chiuso il giornale, e si
era tuffato nelle acque trasparenti della spiaggia dell'asino, dalla quale si
vedevano i fumi del vulcano minaccioso e affascinante.
Gli era venuto in mente Sciascia e
il suo romanzo breve "Una storia semplice".
Si era chiesto come mai.
In fondo era in Sicilia e lui era
un siciliano.
Come l'ex senatore della
Repubblica, come il Prefetto, come il Questore e come il Capitano dei
Carabinieri.
Uscì dall'acqua e pensò che avrebbe
dovuto distendersi sul lettino e godersi la vacanza in quel posto straordinario
e così colmo di silenzio e di pace.
Chiuse il Giornale di Sicilia, lo
rotolò, e lo buttò nel cestino del lido dove decine di turisti stavano
apprezzando la natura illuminata da un sole caldissimo che in quel posto
appariva selvaggio e possessivo.
AL TELEFONO
Stava raccontando qualcosa che lo
aveva turbato, che non lo faceva stare bene, qualcosa che doveva confidare a
qualcuno, per non tenerlo dentro, per lasciarlo uscire dal suo petto, dove
avrebbe assunto, se lasciato non-detto, una dimensione inquietante,
distruttiva, svilente.
E quando aveva iniziato a parlare,
la voce al di là del telefono gli era sembrata comprensiva, in ascolto,
attenta, interessata. Allora il suo racconto era diventato più fluido, più
libero, spontaneo.
Un piccolo entusiasmo lo aveva
preso, a poco a poco stava crescendo insieme alla sua narrazione.
Adesso si concentrava sui
particolari, sui piccoli dettagli apparentemente insignificanti ma che
nascondevano la vera natura del racconto.
Era bello tutto questo, stava
pensando.
Emozionante, liberatorio.
E l'energia del racconto si stava
facendo sempre più intensa, fluida, impetuosa, catartica.
Poi fu interrotto bruscamente: «Scusa, scusa - disse la voce al di
là del telefono - devo avvertire un mio
collega che la riunione è saltata. Ci sentiamo la prossima settimana. Ok?
Ciao...» e aveva riattaccato senza lasciargli il tempo di replicare
o di salutare.
La cornetta era rimasta appiccicata
al suo orecchio.
Rimase immobile per qualche
secondo.
Poi, lentamente, chiuse il telefono
e fissò fuori dalla finestra che si proiettava sull'ampia strada, che dal porto
arriva a piazza Politeama.
La strada, dal quarto piano del
palazzo in stile Liberty di fine ottocento dove aveva lo studio, appariva sempre
più affollata di gente anonima e sconosciuta che frettolosamente sbarcava da una
gigantesca nave da crociera appena attraccata al porto.
Un brulichio di croceristi stava
invadendo via Emerico Amari intrufolandosi nell'unico bar di fronte al porto e
nei negozietti a schiera che vendevano gadget e cazzate inutili a basso costo
creati apposta per quei turisti occasionali.
LA DOCCIA
Non ce l’ho fatta a non pensare
alle foto che mi avevi inviato con WhatsApp.
A quelle foto che volevi mettere
sul tuo profilo Facebook, e che mi avevano turbato la sera prima ... che mi
avevano imprigionato in un desiderio di te irresistibile.
Ti avevo detto che eri bellissima,
troppo provocante, troppo eccitante.
Quelle foto non andavano bene per
metterle su Facebook.
No, non andavano proprio bene.
Avresti attratto troppi maniaci.
E su Facebook ce ne sono tantissimi
di maniaci che vanno alla ricerca di piaceri mediatici solitari.
Te l’avevo detto più volte quella
sera.
Ti avevo anche detto che avrei
voluto fare l’amore con te.
Anche questo te l’avevo ripetuto
più volte.
Mi avevi tramortito, disorientato,
con la tua voce, con le tue foto, con quello che mi avevi detto: «Me lo puoi strappare questo vestitino verde che
mi lascia i seni ben in vista? Quando ci vedremo me lo metterò per te!»
Poi mi hai salutato.
Ti ho salutata con un bacio
immaginato sulle tue labbra.
Sono andato a letto.
Ho dormito tutta la notte col
pensiero di te ... tra le gambe, con una mano, l'ho tenuto stretto per frenarne
il desiderio.
Ho sognato di sprofondare col mio
viso sui tuoi seni, morbidi, delicati, accoglienti.
Io affamato di te, a cercarti.
E poi la mia mano si è infilata tra
le tue cosce e ti ha accarezzato ... eri morbida, vibravi.
Che sogno fantastico!
Poi mi sono svegliato e non c’eri.
Ho chiuso gli occhi per ritrovarti,
ma l'immagine era sparita, il desiderio no.
Mi sono infilato dentro la doccia.
L'acqua bollente mi ha rilassato.
Ho chiuso gli occhi e ti ho
immaginata con me.
L'ho preso e ho consumato il
desiderio di te avvolto dal vapore che ha confuso il mio seme con la schiuma
dolce e gabbana.
LA CONFERENZA
Il Direttore del Dipartimento
Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia, la dottoressa Melita Cavallo,
già giudice minorile presso la Procura dei Minori della capitale, aveva appena
finito il suo intervento amplificato da un microfono che dal palco ronzava la
sua voce rauca dritta dritta dentro le orecchie di un centinaio di ascoltatori
attenti e partecipi, malgrado i timpani fossero infastiditi dal ronzio delle
casse acustiche distribuite perimetralmente lungo le pareti bianche della sala
colorata dal verde pallido delle sedie nel cui leggio ripiegabile erano
poggiati taccuini che penne Bic strette da mani leste riempivano di appunti al
ritmo di teste che sintonicamente annuivano agli accenti oratori della Cavallo.
Che spettacolo, dicevo a me stesso
guardando dall’ultima fila della sala quel balletto di nuche ricoperte di
capelli ricci, lisci, mossi, biondi, scuri, chiari, bianchi, brizzolati,
gialli, lunghi, corti, pelati, scarni, chiazzati, sistemati con cura da mani
inesperte che avevano cercato di imitare maldestramente parrucchieri di
fiducia.
Che spettacolo era quel movimento
sincronizzato ed elegante che annuendo dava consistenza alle parole della
Cavallo!
Che spettacolo!
Ne ero affascinato.
Il “grazie, grazie” conclusivo
dell’oratrice diede il là ad uno scroscìo di applausi che dimostrava il
consenso degli uditori, che i decibel raggiunti dimostravano assoluto, unanime
ad ascoltatori incompetenti o ignari degli argomenti trattati.
Fu allora che la Cavallo si alzò
dalla sua sedia e con occhi luccicanti d’orgoglio, che raccoglievano
soddisfatti il plauso degli uditori, attraversò con una camminata lenta, sicura
e apparentemente claudicante, il corridoio centrale della sala delimitato dalle
file di sedie in parallelo sistemate di fronte al tavolo dei relatori ricoperto
da un panno verde poker.
Io quella donna la guardai
ammirato, incantato, stupefatto.
Era riuscita, ancora una volta, ad
esercitare un potere magnetico che mai il suo aspetto avrebbe lasciato intuire.
Aveva fatto danzare
meravigliosamente cento teste addobbate a festa che s’erano mosse come
fantastici ballerini su “Il lago dei cigni” di Pëtr Il'i Čajkovskij.
Si rifugiò dentro l’auto blu che
l’avrebbe accompagnata a sirene spiegate a Fontana Rossa per rientrare nella
capitale, ed era scomparsa dietro l’angolo dell’hotel Le Dune.
Tutti gli sguardi che avevano visto
sparire dalla vista la Cavallo, come saette erano schizzate fuori dalla sala
delle conferenze per precipitarsi chi in piscina, chi al bar, chi negli angoli
privè, chi in auto messe velocemente in moto, chi a formare crocchi pettegoli
sul prato verde appena innaffiato, chi a mostrare borse firmate della nuova
collezione Louis Vuitton, Saint Laurent, Prada, Gucci, Hermès, chi a parlare
della nazionale di calcio, lasciando i relatori frementi di dare pronte
risposte all’introduzione della Cavallo.
Gli oratori erano rimasti silenti e
composti dietro al tavolo verde della sala delle conferenze, che adesso
svuotata appariva ancora più bianca e con sedie libere che mostravano a occhi
assenti il loro mancato splendore.
L’ONOREVOLE
Aspettavano che arrivasse
l'onorevole, tutti in piedi nella grande Sala Gialla ricoperta di arazzi fatti
a mano con telai d'ulivo da donne laboriose educate fin da bambine
all'ubbidienza e alla disciplina del lavoro.
Donne che ignoravano come la loro
fosse arte tanto preziosa quanto dimenticata nella sua raffinata tecnica da lì
a quattrocento anni.
C'erano giovani professionisti
disoccupati e giovani politici in cerca di successo che da padri sperti e navigati avevano pì fuorza appreso che le relazioni
importanti, per farsi strada nella vita, contavano più del talento, della
preparazione e della fatica nel lavoro.
Erano tutti ben vestiti, gli uomini
in eleganti abiti scuri con cravatte Hermès, le donne con vestitini che
lasciavano scoperte le gambe e décolleté provocanti e generosi, con al braccio
penzolanti borse Louis Vuitton.
Le grandi finestre della Sala
Gialla lasciavano entrare luce soffusa di una città puntellata di piccoli
bagliori bianchi, rossi, gialli, arancioni, verdi, che la ornavano come un
immenso e fantasioso ricamo lavorato con fatica da mani rugose che ad uno ad
uno l'avevano finemente modellato con luccicanti pagliette di perle variopinte.
L'immenso e fastoso Palazzo Reale
dominava dall'alto della collina quell'incantevole spettacolo che la luminosa
luna piena, specchiata nel mare blu cobalto del grande porto commerciale
dell'isola, rendeva ancora più unico e suggestivo.
I corridoi del Palazzo erano
affollati da crocchi di sempre più impazienti convegnisti che si scambiavano
sorrisi stentati e che ascoltavano distrattamente i futili argomenti di
conversazione occasionale soliti di quegli eventi dove il numero dei
partecipanti è molto più apprezzato della qualità dell'attenzione dimostrata.
Numeri che danno ai relatori, per
lo più politici da sedurre o impressionare, il peso politico degli
organizzatori.
Come al solito era in ritardo.
Non amava quei posti, né quella
sorta di eventi dove la sola cosa che conta è fari prisienza, fare numero, e poi complimentarsi coi
relatori anche se non aveva seguito l'argomento o non c'aveva capito nulla.
Esserci e cerimoniare, questo era
importante per il lavoro che svolgeva.
Aveva preso di corsa l'ascensore e
aveva sperato che il convegno non fosse ancora iniziato per salutare al suo
arrivo l'onorevole, e poi svignarsela quatto quatto alla prima occasione
propizia, giusto il tempo di seguire l’apertura dei lavori del solito
moderatore, molto attento alla presentazione di rito che avrebbe narrato delle
gesta, dei successi internazionali e delle capacità diplomatiche e politiche
dell'onorevole.
Uscì frettoloso e impaziente
dall’ascensore.
Si diresse a passi svelti verso
l’elegante salone dei congressi.
Fu lì, nel foyer, che il suo
sguardo quasi distrattamente incrociò due occhi neri come il carbone e profondi
come l’ignoto che lo paralizzarono d’incanto.
Esitò un momento, si guardò attorno
barcollante cercando di ritrovare la direzione che stava percorrendo, senti
rimbombare chiassosamente le voci dei convegnisti annoiati dalla prolungata
attesa.
Poi un silenzio assordante lo
devastò.
Tutto si era fermato.
Stava vivendo una sensazione che a
stento comprendeva.
Lentamente girò lo sguardo dietro
di sé e capì che quegli occhi neri e profondi gli avevano appena mosso un
fendente violento che aveva aperto dentro il suo petto uno squarcio
d'innamoramento che mai più si sarebbe rimarginato.
I DISSUASORI
L’asfalto di fresca posatura di
viale della Libertà emanava un tanfo ed un vapore fastidiosi ai due giovani
pedoni che sudaticci avevano scavalcato la fascia bianco-rossa che delimitava
la strada, e arricciando il naso l’avevano velocemente attraversata lasciando
impronte di scarpe di gomma divenute appiccicose che avevano fatto nervosamente
alzare lo sguardo e la voce al crocchio di operai della Gesip scoperti nel
dorso per il caldo africano.
Il Sinnacollando li aveva costretti a lavorare sotto il
sole cocente di agosto per dimostrare alla città che gli ottocento ex-detenuti
ed ex-tossicodipendenti, lavoratori della cooperativa creata dal medesimo nei primi
anni novanta, non era uno stipendificio, ma serviva veramente alla città.
E sempre il Sinnacollando aveva pubblicamente
detto, al momento del recente insediamento, che la prima cosa che avrebbe fatto
era eliminare gli orripilanti dissuasori in cemento di viale della Libertà
voluti dal suo predecessore, il sempre assente Sinnacotennista, che per quattrocentomila euro aveva
reso il viale impraticabile agli scooter e agli autobus di linea dell’Amat che
ad uno ad uno s’erano scassati negli ammortizzatori e nelle carrozzerie
riempiendo all’inverosimile i garage dell’officina dell’Amat.
«- Chi fai nun lu viri n'ca a pici
è frisca?
- Avemu primura! Chi vuoi? Fatti i
cazzi tuoi!
- Viri si ti dugnu un corpo di pala
n'testa! Nuatri puru primura avemu di finiri prestu ca c’è un cavuru di moriri.
Nun lu fari chiù a prossima vuota, va bene?
- Picchì a' sinnò chi fai?»
I due ragazzi, l’ultima frase
l’avevano gridata dileguandosi velocemente nelle viuzze che portavano al Borgo
Vecchio.
Io m’ero fermato a guardare la
scena.
Fantastica, bella e variopinta,
fatta di suoni e di odori, di tanfi e di grida, di sguardi e di occhiate storte.
E in quella scena c’era la storia
di tutta la città, della sua cultura e delle sue tradizioni, del detto e del
non-detto, della prepotenza e della soperchieria, del rispetto e
dell’arroganza.
E per un attimo mi sono sentito in
un teatro all’aperto, in un cabaret per pochi intimi, in un cinema per vedere
un film neo- realista recitato in dialetto siciliano.
E quello che avevo visto non poteva
che avvenire qui, nella mia città, in questa terra ch’è la mia, piena di
contraddizioni ma anche di immensa vitalità.
È stato allora che ho pensato che
oggi una mia cara e amata amica, che vive lontano da questa che è anche la sua
terra, oggi compie gli anni.
Forse una scena come questa, per un
attimo, per un momento, ho pensato, l’avrebbe trascinata qui con me, nella sua
isola.
Forse con la mente sarebbe stata
catapultata nel centro storico della mia città, ch’è molto simile alla sua.
E forse questo poteva essere un
piccolo e semplice regalo che le potevo donare.
Scriverle e spedirle la scena alla
quale poco prima, passando da viale della Libertà, avevo assistito.
Tanto ordinaria da queste parti,
quanto straordinaria per chi vive lontano e la deve semplicemente immaginare.
UNA GIORNATA ORDINARIA
Giornata infernale oggi, senza
respiro, senza tregua, senza sosta, senza pietà alcuna.
È da stamattina che vengo
massacrato.
Me ne succedono di tutti i colori
nel mio lavoro.
In genere il lunedì è il giorno
peggiore della settimana.
L'ho sempre odiato.
Non mi è mai piaciuto, neanche
quando andavo a scuola, da piccolo, e non sapevo ancora cosa fosse lavorare.
Ma il lunedì lo odiavo già.
Mi piacerebbe invece che fosse un
giorno leggero, lento, tranquillo, senza problemi, senza casini, senza
discussioni.
Oggi invece è stato l'inferno.
Già da stamattina alle otto, subito
dopo aver preso un buon caffè al bar.
I primi appuntamenti un casino.
Poi telefonate di fuoco e persone
in attesa in ufficio (senza appuntamento), appostate nella sala d’attesa, per
discutere su questioni del cazzo dove da torto volevano ragione!
Mi è venuto un mal di testa
pazzesco, incredibile, dolorosissimo.
Le tempie me le sentivo pressate
come da una macchina di tortura medievale invisibile ma impietosa, come una
morsa di fabbro che fissa un arnese da taglio per affilarlo per bene.
Poi riunione in assemblea
regionale.
Tre ore, di cui una di attesa.
Panino e rientro in ufficio.
Un caffè di corsa al bar più
vicino, in piedi, di fretta.
Di solito il caffè lo prendo
lentamente nella terrazza del bar dell’angolo. Leggo per dieci minuti il
Giornale di Sicilia, poi faccio due passi, solo cinque minuti, e infine mi avvio
verso il portone del palazzo costruito nei primi del novecento sulla strada che
si conclude nella porta a mare della città antica, dove ogni giorno arrivano
enormi navi da crociera che liberano migliaia di croceristi alla ricerca
affannosa di souvenir e calamitine con tascissimi
rilievi colorati che tentano di ricordare un viaggio in Sicilia.
Oggi, invece, il caffè l'ho mandato
giù come si fa con la tequila bum bum,
di botto, andavo di fretta, era inevitabile.
A momenti mi usciva dalle narici.
Un nuovo appuntamento mi aspettava
al quarto piano.
Altri documenti da preparare.
Ho finito adesso.
Stanco?
No, distrutto, sfinito.
Con la sola idea di rientrare a
casa, fare una doccia, cenare velocemente, distendermi sul divano, guardare un
film su Sky, e finalmente distrarre l’attenzione dal lavoro e farmi prendere
dolcemente dal sonno.
Questa è stata la mia splendida
giornata di oggi.
Bellissimo inizio.
Fantastico.
Ma c’è una cosa che mi piace,
adesso che mi sono fermato e ci penso: di certo non mi annoio.
Mai.
E questa è la cosa che mi piace.
Ma tu dove sei?
Ed io, ingenuo, che pensavo di trovarti
ad aspettarmi!
Che ingenuo che sono!
Va bè, proverò più tardi, se le
forze mi assisteranno!
INNAMORATO
È come se commettere delle gaffe mi
mettesse in una situazione di sudditanza, di difetto, di colpa, di errore da
riparare, insomma: Una situazione nella quale, per l’errore commesso, non si
può più meritare quello che si vorrebbe ardentemente.
Quello per cui si anela
voracemente.
È come se dicessi a me stesso: «Vedi? Hai commesso una bella minchiata! Adesso
come farai? È impossibile che tu ottenga quello che vuoi, quello che vorresti,
quindi rinunciaci. Mettiti il cuore in pace. Non sei cosa.»
È questo quello che forse una parte
di me vuole dire all'altra parte di sé.
Una parte che teme il fallimento
all'altra parte che vuole il successo.
Ci sono sempre state queste due
componenti dentro di me che hanno lottato tra loro ferocemente.
Spesso vince una, qualche volta
vince l’altra.
Ma sempre in competizione.
E dipende dall'umore, dai successi
ottenuti, dalle soddisfazioni maturate.
Più sono i fallimenti, più la parte
che teme il fallimento domina per la rinuncia.
Più sono i successi, più la parte
ambiziosa prende il sopravvento e domina sull'altra.
È un continuo lottare dentro di me,
e questa lotta la sento sempre.
Ogni momento.
Ecco, con lei mi succede questo.
Mi succede che la parte che vuole
il successo non riesce a dominare, e l’altra parte fa a questa degli sgambetti
imprevedibili che la portano al ridicolo, alla goffaggine.
E tutto ciò ha delle ripercussioni
devastanti.
Ma è così.
Non si può fare nulla se non
sperare che il successo prevalga sull'insuccesso e la parte migliore di me
prenda il sopravvento.
Ecco! È questo quello che penso mio
caro amico.
AUGURI DA PALERMO
Erano
le otto e trenta del mattino di una calda giornata di giugno, e l'aria di
piazza Marina, resa umida da una cappa africana, ci costringeva a cercare
l'ombra degli splendidi palazzi nobiliari che abbracciavano la bellissima villa
alla Kalsa progettata dal geniale Basile nella seconda metà dell'ottocento.
Eravamo
tutti in cerchio a parlare nell'attesa di prendere un buon caffè e di due belle
ed eleganti signore nordiche che stavano arrivando a piedi lasciando alle loro
spalle la Cala e la chiesa di Santa Maria della Catena.
Da
lì la mèta sarebbe stata il promontorio che Goethe, nel suo viaggio in Sicilia,
aveva definito il più bello del mondo.
U’
munti dove un 15 luglio di secoli prima i miei concittadini, chi in ginocchio
chi a piedi scalzi, per scacciare la peste che stava decimando il popolo
palermitano, s’erano trascinati in preghiera nella grotta dov'erano state
ritrovate le reliquie della Santuzza divenuta, per il miracolo concesso,
patrona indiscussa e venerata della città.
Fu
un viaggio breve ed intenso quello che ci portò sul pizzo della collina.
Un
marocchino lavavetri scoraggiato nell'agire da un cenno deciso degli occhi del
guidatore; tornanti infiniti di munti pilligrinu, che aprivano squarci
incantevoli sul golfo marinaro e sul porto industriale della città.
Un
parcheggiatore abusivo dissuaso nel fermarci da frasi in dialetto smozzicate,
incomprensibili ma efficaci.
Poi
il Castello Utveggio che domina la città e il mare.
E
lì che seppi che il 14 di luglio la bella e raffinata signora venuta dal nord
nella mia calda città, compiva gli anni.
È
passeggiando con lei sul belvedere del Castello che mi raccontò del suo bel
viaggio di nozze in Sicilia, che l’aveva affascinata e fatta innamorare dei
nostri profumi e dei colori del nostro selvaggio e incontaminato paesaggio.
È
oggi che il Carro della Santuzza a forma di vascello, già pronto per lo storico
corteo, sarà trascinato da Porta Nuova a Porta Felice dai buoi benedetti
dall'Arcivescovo della città, dove i babbaluci e le crocchè, per essere sucati
i primi e manciati ca' rosetta i secondi, aspettano l’inizio dei giochi
d'artificio che illumineranno a festa la città liberata dalla peste del milleseicentoventiquattro.
ZONTA ZYZ
I viali in terra battuta dei
giardini reali erano sparsi di ceri alla citronella che allontanavano le
zanzare e illuminavano le opere esposte all'aperto.
La camminata veloce verso la
cavallerizza alzava un sottile strato di polvere amplificato dalla luce dei
faretti sparsi oculatamente lungo i viali per risaltare i colori dei dipinti e
le forme delle sculture che osservavano incuranti il mio passo affrettato.
Gli amplificatori rendevano le voci
del palchetto improvvisato protagoniste della serata adesso divenuta fresca e
movimentata da un fruscio di convenevoli, sorrisi, strette di mano, abbracci,
pacche sulle spalle, baci sulle guance, scambi di battute, reciproci
complimenti e congratulazioni.
Le vidi tutte schierate una accanto
all'altra. I sorrisi erano schietti, sinceri e soddisfatti.
Tutto stava procedendo come
sperato, organizzato, programmato.
I ragazzi della scuola alberghiera,
impettiti in tait con papillon colorati, zigzagavano con vassoi colmi di
assaggini preparati nel rispetto dell'arte culinaria siciliana, mentre mani
leste sbucavano improvvisamente da crocchi di invitati eleganti e raffinati, e si
allungavano per svuotare le portate e rendere più agevole l'equilibrio
apparentemente precario dei giovani camerieri.
Fu allora che il tenore, invitato
per l'occasione, intonò un canto poderoso accompagnato dalle note decise e
ritmate del pianoforte sul quale si era concentrato, isolandosi dalla folla dei
convenuti sparsi lungo la cavallerizza ch’era stata di Federico II di Svevia.
Le donne che stavano lasciando il
palco, apparivano adesso ancora più belle, avvolte da un'aurea nuova, luminosa
e luccicante di nuova forza e vitalità, di uno spirito di solidarietà generoso
che li rendeva consapevoli che insieme, sarebbero state più forti, più
convincenti, più determinate e avrebbero fatto grandi cose.
Si era appena conclusa la cerimonia
di fondazione del nuovo Club Zyz ed erano ufficialmente diventate donne Zonta.
POSTFAZIONE
Tutti portiamo, ovunque andiamo, le
nostre radici, ma ognuno ha la sua modalità. Molti nascondono il mondo che esse
rappresentano dentro la memoria e vedono la luce solo nei racconti che verranno
fatti ai piccoli della famiglia. Tanti amano, invece, dimenticare per non
rimanere imbrigliati nel loro passato. Pochi hanno il coraggio di riesumarlo e
regalarlo a tutti come un monile prezioso, da tramandare per non farlo morire
con noi. Di questi ultimi fa parte Andrea Giostra, che ha impresso la sua "sicilianità" in tanti fogli bianchi, facendo una
raccolta, il cui nome è "Novelle Brevi di Sicilia".
Le sue quattordici Novelle sono frutto di una Sicilia antica che
si racconta con genuina veridicità a coloro che non ne hanno conosciuto la
Storia, nel bene e nel male. Giostra non giudica, non approva o disapprova, si
limita a restituire ai Siciliani di oggi la paternità di gesti, movenze,
emozioni che non hanno tempo e quindi vivibili anche nell'attuale contesto
storico. Questo è, a parer mio, il grande pregio di questo Autore, di essere,
passatemi il termine, il "Traghettatore" di un passato storico, emozionale, di tradizioni ad un presente che,
talvolta, lo rinnega perché superato o non degno di essere storicamente
ricordato. Sappiamo bene che chi non ha un passato non può avere un futuro, la
Storia Siciliana è un puzzle di dominazioni che l'hanno invasa, anche dominata
ma mai sconfitta. Nessuno le ha tolto i suoi tramonti, i colori dei suoi
oleandri, i cibi, le sue magnifiche e universalmente riconosciute bellezze
artistiche. Sì, ci sono stati secoli segnati dall'ignoranza, dalla povertà e
dalla mancanza di lavoro, c'è stata violenza, ma un Siciliano resta un
Siciliano che sa cos'è il rispetto, l'amore per la famiglia, la devozione per i
suoi Santi. E poi Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia,
quanta ricchezza artistica e letteraria grazie alla quale, con orgoglio, ci
permettiamo di vivere …"questo
luttuoso lusso di essere siciliani" come
dice il grande Gesualdo Bufalino.
Andrea Giostra è personalità culturalmente poliedrica, con queste “Novelle
brevi di Sicilia”, ci permette di conoscerlo come portavoce della Sicilia e
dei Siciliani. Descrive fatti e persone nella loro immediatezza e non si pone
l’intento di dare messaggi o veicolare verità, anche se, alla fine, chi legge
rimane conquistato dagli usi e i costumi di questa terra. Nelle descrizioni c’è
una intensità che non può non stupire se non si è siciliani. Le sfumature dei
tramonti, l’intensa bellezza che si offre agli occhi di chi passeggia su secoli
di storia; la gestualità dei turisti, incantati e rapiti dalla magia della sua
Palermo, occhi ammirati dalla bellezza e malinconici come lo è il saluto di chi
vede ormai finire la propria vacanza. Quadretti che l’Autore rende pittoreschi
avvalendosi della lingua madre, il dialetto, per descrivere scene di vita
quotidiana, vissute lungo le strade che diventano così veri e propri pièce
teatrali improvvisate. I pomeriggi assolati, quando tutto rallenta, i tramonti
con pennellate di colori che fanno da sfondo a una natura rigogliosa.
L’imbrunire che veste d’intimità le cattedrali, i vecchi palazzi, veri e propri
ricami di architettura, vestigia lasciate da tante dominazioni storiche. Un
Autore attento, che fa emergere qua e là sprazzi di saggezza, parole dette da
una nonna ad un nipote come un’eredità preziosa, il silenzio che si osserva in
ogni dove quando passa, per le strade, un corteo dietro ad una bara. La vita si
ferma, il capo si scopre in segno di rispetto, il silenzio diventa
commemorazione e compartecipazione. Danno valenza al narrato il rispetto per
gli anziani, l’ammirazione per la bellezza femminile descritta con garbo e
decisione, la consapevolezza femminile della conquista fingendo di non osare,
il compiacimento del trionfo del vero talento sulle prevaricazioni, che sono
alla base delle ingiustizie e del pressapochismo sociale. C’è anche un accenno
ad una Sicilia a volte violenta, incompresa, amara, frutto dell’ignoranza,
dell’inciviltà e dell’antico abbandono politico/sociale. Quelle di Andrea
Giostra sono Novelle che sposano l’antico e il moderno di una Sicilia
che è per questo terra di tutti, perché seppure dominata da tanti popoli non ha
smarrito la sua identità e il suo classicismo. Questa è la “Sicilianità” che
vuole evidenziare l’Autore ma in modo sommesso, non assolvendo o condannando
nessuno, lasciando al lettore spazio per il suo convincimento scaturito da una
testimonianza tesa soltanto a restituire alla sua terra il valore storico che
le appartiene.
Con questi miei brevi cenni ho vissuto emozioni e sensazioni di
una terra che è anche la mia. Ho potuto constatare la bontà e la veridicità di
quanto è narrato da Andrea Giostra con un linguaggio colorito ma semplice, teso
a sdrammatizzare anche la pesantezza di certi accadimenti. Questa è del resto
la vera Sicilia: la terra dei Pupi siciliani, del cannolo, della cassata, della
granita, dell’irresistibile profumo della zagara e del gelsomino, delle donne
procaci che sanno conquistare fingendo di non osare, di Segesta, Taormina,
Monreale, Noto, il Teatro greco, della generosità e del dolore dei suoi figli
che l’hanno dovuta lasciare in cerca di un futuro per la propria famiglia.
Un pensiero del grande Goethe, che
facciamo nostro, dedicandolo a tutti coloro che per un giorno, un anno o una
vita intera hanno incontrato questa Terra, amandola intensamente: «L’Italia
senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si
trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa,
la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo e del mare e
del mare con la terra … chi li ha visti una sola volta li possiederà per tutta la
vita».
Caterina Guttadauro La Brasca
https://www.facebook.com/caterina.guttadaurolabrasc
https://www.facebook.com/caterina.guttadauro.la.brasca
http://caterina-guttadauro.blogspot.com/2018/07/andrea-giostra-un-adulto-che-guarda-con.html
RECENSIONE
“Autore di rilievo, emozionale, con uno spessore culturale
inusuale e di superiore qualità, da non perdere l’opportunità di godere delle
sue opere” | di Piero Casoli
Le “Novelle brevi di Sicilia”
noi le abbiamo lette!
Tra le molteplici attività
che sono proprie di una Casa Editrice riteniamo siano di estrema
importanza e, aggiungiamo, di responsabilità, la valutazione delle opere
pervenute dagli autori per l’eventuale pubblicazione nonché l’esprimersi con
una libera ed obiettiva recensione di opere pubblicate da altri Editori.
Non sempre i nostri commenti
hanno incontrato le “non espresse” speranze degli autori
ma, tutti coloro che abbiamo avuto il piacere di incontrare e con i quali
confrontarci, hanno pienamente recepito il nostro messaggio di rigorosa
correttezza, sincerità ed equilibrio di valutazione.
Siamo consapevolmente certi
che nessun recensore abbia “il diritto” di “giudicare”
l’opera in esame; solo il lettore ha questa facoltà.
È importante la premessa
fatta perché ci accingiamo a commentare l’opera “Novelle brevi di Sicilia”
scritto dal prolifico autore Andrea Giostra e, aggiungiamo noi,
purtroppo, autopubblicatosi per sua rispettabile scelta.
Ci piace sottolineare che Andrea
Giostra spazia dal racconto al breve ma incisivo brano che tratteggia, come
un dipinto, frammenti di vita siciliana a lui tanto cara; egli si addentra con
la capacità di acuto osservatore anche in interviste letterarie e in recensioni
cinematografiche. Scrittore poliedrico e di classe.
“Gli auguri di mia nonna
ottantenne”
È una scrittura riccamente
dettagliata, piana, agevole nella lettura con un linguaggio raffinato ma
comunque facilmente fruibile e che si lega, armoniosamente ed inaspettatamente,
ad un linguaggio quotidiano parlato da tutti noi.
L’autore è sempre presente in
tutti i racconti anzi ne è il protagonista invisibile e – questa capacità –
testimonia l’attitudine all’utilizzo duttile della lingua italiana.
Sorprendente la figura della
nonna ottantenne prodiga di buoni consigli che il suo ruolo e la sua età
indurrebbero a trasmettere al nipote mentre – invece – lo incita,
accoratamente, a godersi quanto più possibile la gioventù.
È pregevole l’utilizzo di un
linguaggio estremamente attuale ed in lingua siciliana della nonna: “e di
tutto il resto futtitinni”; notevole l’alternanza linguistica!
“Agosto a Palermo”
Uno spaccato di vita che ci
immerge in una realistica conversazione che avviene alla vista di un funerale;
sono le domande che sorgono spontanee a tutti noi “ma comu muriu?”, “comu
fu?” alternando sapientemente– nel racconto – il perfetto italiano
ed il dialetto; ben pochi autori raggiungono un così delicato equilibrio.
L’opera “Novelle brevi
di Sicilia” contiene 14 racconti: gradevoli, ammiccanti,
alcuni passionali ma tutti capaci di creare l’atmosfera siciliana ma non solo,
facilmente apprezzabili e godibili dai “continentali”.
“Il senso, la morale, se c’è
un senso o una morale da dare li darà il lettore che le leggerà”; questo è il vero senso delle
opere di Andrea
Giostra che, guarda caso, corrisponde pienamente al nostro
comportamento come Casa Editrice: l’unico giudice è il lettore.
Andrea Giostra, un autore
di rilievo, emozionale, con uno spessore culturale inusuale e di superiore
qualità, da non perdere l’opportunità di godere delle sue opere.
Le “Novelle brevi
di Sicilia” noi le abbiamo lette!
Piero
Casoli
Piero
Casoli, editore, scrittore, giornalista.
https://www.facebook.com/lamacina.onlus
Giornale
online “La macina magazine”
https://www.lamacinamagazine.it
La
recensione di Piero Casoli è stata pubblicata sul giornale online “La macina
magazine” il 27 Agosto 2017, e si può leggere cliccando qui:
https://www.lamacinamagazine.it/novelle-brevi-di-sicilia/
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio i cari amici che mi hanno
dato un prezioso aiuto nel lavoro di editing
e nelle necessarie riletture dei testi:
Sarah Gravagnola, magistrato,
Napoli.
Caterina Guttadaduro La Brasca,
scrittrice, Bologna.
Giuseppe Lo Dato, geologo, Bologna.
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